domenica 30 luglio 2017

L’OUROBOROS NON ÉEEEEEEEE UN SERPENTE…


L’OUROBOROS NON ÉEEEEEEEE UN SERPENTE…

Questa penosa citazione della canzone di Donatella Rettore mi serviva per anticipare la seguente domanda: alzi la mano chi ha mai almeno sentito parlare di questo libro.

 
Il serpente Ouroboros di Erik R. Eddison

Eddison (d’ora in poi ERE), era all’apparenza un classico impiegato inglese che viveva a cavallo tra l’800 e il ‘900, ma era anche un instancabile sognatore e appassionato di Omero e delle saghe nordiche, soprattutto islandesi, che scrisse questo libro partendo dalle sue fantasie di bambino.
Trovai questo libro per caso, anni fa, mentre curiosavo tra gli scaffali di una libreria di un centro commerciale (quando era possibile trovare chicche del genere).
Lo presi per due ragioni: primo, la copertina, estremamente evocativa; secondo, per la furba citazione che l’editore mise accanto al titolo: “Il più grande e il più convincente scrittore di mondi inventati che io abbia mai letto. J.R.R. Tolkien.”
Potevo non abboccare all’amo? Infatti abboccai e lo comprai.
La trama è questa: un tipo chiamato Lessingham viene trasportato tramite un cocchio trainato da un ippogrifo sul pianeta Mercurio (non il nostro, un altro) dove, in guisa di spirito, osserverà le vicende che vi si svolgono.
Questo Mercurio, molto simile alla Terra, è abitato da razze dai nomi evocativi: Demoni, Streghe, Goblin, Ghoul, che, però, sono tutti umani (a parte i Demoni che hanno le corna, che decorano).
Le due maggiori potenze del pianeta sono Demonland, patria di guerrieri valorosi e audaci, ispirati in parte agli eroi nordici e in parte a quelli omerici e gli infidi abitanti di Witchland che, però, hanno tra le loro fila guerrieri non meno capaci e di valore.
Tramite la stregoneria, re Gorice XII di Witchland troverà un modo per mettere sotto scacco gli eterni rivali e invadere finalmente Demonland, grazie anche alle trame del Goblin traditore Gro. I reggenti di Demonland, i tre fratelli Goldry Bluszco, Juss, Spitfire vengono divisi: il primo viene rapito da un essere evocato dagli incantesimi del re delle Streghe (!) e portato in un luogo sconosciuto, il secondo, guidato da sogni profetici e incanti, parte per una terra leggendaria nel tentativo di risolvere la situazione, mentre Spitfire rimane a Demonland a organizzare la resistenza.
Da qui un turbine di azione, meraviglie, mostri orribili, sfide al limite dell’umano, intrighi che neanche il Trono di spade, battaglie epiche combattute sul filo della rovina per entrambe le parti, fino al confronto finale che chiuderà un epoca e ne aprirà un’altra.
C’è un solo modo per definire Il serpente Ouroboros(The worm Ouroboros): Epico. I suoi personaggi sono tutti belli, nobili, audaci, impavidi, degni eredi delle saghe nordiche e dei poemi omerici. E parlo di tutti, anche di quelli che dovrebbero essere i cattivi. ERE, amante anche di Shakespeare e del teatro elisabettiano infonde i tutti loro una profondità incredibile: come succede nella vita reale, ognuno di loro si ritiene protagonista della storia e ERE lo sottolinea.
Inoltre le scene d’azione riescono a essere di una epicità a volte unica: basta leggere la sfida di lotta tra re Gorice XI e lord Goldry Bluszco nel capitolo II, la scalata ai picchi gemelli di Koshtra Pivrarcha e Koshtra Belorn nei capitoli XII e XIII o l’assedio di Carce.
ERE scrisse nell’introduzione: “Questa non è né un’allegoria né una favola, ma un storia da leggere per il gusto di leggerla”. Ed è vero. Il serpente Ouroboros non ha altra ambizione che intrattenere, e lo fa maledettamente bene.
E il suo finale rende bene il significato del titolo che simboleggia, tra le varie cose anche il tempo ciclico, l'infinito, l'eterno ritorno e l'immortalità (come quella del re Gorice che porta appunto un anello a forma di Uoroboros al dito, e non solo per vanità).
Quindi stiamo parlando di un capolavoro? Nì.
Non è perfetto, e ci sono alcune magagne:
La prima, quella che salta subito agli occhi è la questione dei nomi. ERE probabilmente li aveva inventati durante l’infanzia e se li era portati avanti per tutta la vita fino a quando, intorno a i quarant’anni, aveva pubblicato il romanzo. Questo porta ad avere personaggi e anche luoghi che, al contrario di quanto accade con Il Signore degli anelli, stonano poi con coloro che li portano. Oltre al già citato Spitfire abbiamo La Fireez, Fax Fay Faz, Zigg, Jalcanaius Fostus. Persino Tolkien, che lo apprezzava, rimproverava questo limite;

Poi c’è Lessingham, il terrestre che introduce la storia. Sparisce a metà del secondo capitolo e non se ne fa mai più menzione. A qualcuno potrebbe storcere il naso a questo fatto, anche se, come dice lui stesso, eviterà di dare giudizi fino a che le vicende narrate non si chiariranno. In questo senso, allora non si potrebbe chiamare dimenticanza dell’autore la sua scomparsa ma, appunto, la volontà di diventare in tutto e per tutto osservatore della storia, così come lo è il lettore. È soltanto un’interpretazione, però, la mia, quindi va presa con le molle;
Per ultimo una cosa che, di per sé a me non dà fastidio, ma potrebbe darlo a chi è abituato a una prosa più moderna e veloce: le descrizioni. ERE è molto prolisso quando si tratta di descrizioni, anche per lo standard dell’epoca. È sua intenzione sottolineare lo status dei suoi protagonisti e lo sfarzo delle loro dimore, e anche il sense of wonder di un mondo così simile e così diverso dalla Terra. E per farlo non lesina pietre e metalli preziosi, vesti, armi e armature finemente decorate e lavorate, talmente cariche di gioielli che uno sarebbe tentato di fregare la spada all’avversario piuttosto che combatterlo.
Tutte queste descrizioni possono appesantire la lettura a chi non è abituato. Per me non è un problema, anche perché il ritmo nonostante tutto non cala mai, rimane alto, senza pause, quindi è uno scoglio abbastanza superabile.
In definitiva: Matteo, ce lo consigli? La mia risposta è sì. Soprattutto perché è scritto in un epoca antecedente al cristallizzarsi degli stereotipi del fantasy, perciò rimane originale, inaspettato, in alcuni punti sorprendente rispetto a  tante opere più moderne.
Se vi piacerà sarà uno di quei libri che rileggerete da capo più e più volte, perché, ricordate, l’Ouroboros è il ciclo infinito, il tempo che si ripete. E ancora, e ancora… MWHAHAHAHAHAHAH!!!

mercoledì 26 luglio 2017

UN GIOCO ANCESTRALE


UN GIOCO ANCESTRALE

Doveva essere il 1995 o ’96, quando un mio amico si presentò con una scatola rossa(!) dicendo «Matté, questa l’ho presa in edicola. Credevo che fosse come Heroquest, ma non ci ho capito niente. Vedi se ci capisci qualcosa tu.»
La scatola in questione era questa:
Il gioco di ruolo de LA STORIA ANCESTRALE

Era basato su un una serie di fascicoli editi da Hobby & Work (colpevole anche della serie a fascicoli di Mutant Chronicles), a sua volta basato su di un racconto scritto dal sudafricano Frank Graves (secondo quanto recita Wikipedia).

La storia narrava di un ragazzino, Richard, trasportato per magia in un mondo fantastico dove gli esseri umani non sono così comuni, al contrario degli Animali Comuni, ossia uomini bestia, tipo uomo –cinghiale, Uomo-leopardo, Uomo-lucertola, ecc.

Qui incontra un mago umano, Golan, che lo informa che lui è il prescelto per sconfiggere le forze del male (ma, va?), incarnate dal Malvagio, un potentissimo stregone alla ricerca delle Gemme della Vita, oggetti potentissimi che daranno a chi le possiede poteri assoluti. Il Malvagio ha già catturato i guardiani di sei Gemme e presto metterà le mani sulla settima. Compito di Richard, e della sua guida, Orkan, un uomo-cinghiale sarà viaggiare per il mondo, recuperare le gemme dai servitori del Malvagio e sconfiggere lo stesso. Il tutto in 26 giorni, uno per ogni fascicolo (emmecoj@@@ni!).

In seguito Richard si troverà catapultato in un mondo fantascientifico dove dovrà affrontare ancora il Malvagio. Il gioco però è ambientato solo nella prima parte della storia.

Non avevo collezionato i fascicoli quando erano usciti in edicola, qualche anno prima, perciò presi la scatola con curiosità, l’aprii e l’esaminai:

 
 

A quel tempo avevo già iniziato a giocare di ruolo, quindi non ebbi difficoltà a “decifrare” quel regolamento.
A essere onesti non è molto complicato, si capisce che è orientato per i neofiti assoluti dei giochi di ruolo quindi le regole sono molto semplici (anzi, forse a volte anche troppo), ma ci sono refusi, alcuni termini inutili e l’impaginazione non aiuta l’interpretazione.
Tanto per fare qualche esempio le Caratteristiche (tipo la Forza) erano denominate, senza alcuna ragione Poteri Megatronici! (se giocavamo a Daitarn III GDR poteva anche starci, così, pero, dai…).
Un’altra caratteristica(scusate Potere Megatronico, sigh) era Bene/Male: in pratica si sceglieva se essere buoni o cattivi (senza però far parte dei servitori del malvagio). Il testo recitava testualmente: “più il valore è alto, più il personaggio sarà convinto della sua scelta, più è basso più si comporterà in maniera contraddittoria.”
Il problema nasce dal fatto che alcune di questi poteri Megatronici (Armi, Inganno, Magia, Bene/male), ertano legati a gruppi di abilità ben precisi. Non si sa perché ma a Bene/male erano legati abilità come Oratoria, Nuotare, Medicina, Botanica, Resistere, senza una logica apparente.
Inoltre, con l’eccezione delle abilità legate alle Armi non si può fare un test su di una abilità che non hai. Così, per esempio, se non hai l’abilità Resistere, puoi schiattare automaticamente se vieni avvelenato, oppure se ti ritrovi senza bere o mangiare.
Ogni pagina è impreziosita da immagini a colori tratte dai fascicoli, cosa che la rende il manuale molto bello da vedere. La fregatura è che, a volte i colori si sovrappongono al testo, rendendo un po’ complicato da leggere.

Inoltre il volume parte dal presupposto che si abbiano anche i fascicoli, sorvolando un po’ sull’ambientazione e limitandosi a qualche riferimento qua e là.
Quindi il gioco fa schifo? No, solo credo che abbia dovuto avere un po’ più di cura nel realizzarlo.
Passando alla parte prettamente tecnica bisogna dire che la creazione del personaggio si ottiene tirando 6 dadi da 6, uno per ogni Potere Megatronico (Forza, Dimensioni, Armi, Inganno, Magia, Bene/Male) modificati poi dalla razza scelta (ben 11!). Da qui, poi si sceglie la Professione (solo 3: Guerriero, Cacciatore, Mago.)
Le meccaniche di gioco, di per sé, però,  non sono complicate. Si tirano due dadi a 6 facce si sommano al punteggio di abilità che va da 0 a 5. Se il totale è uguale alla difficoltà data dal Master l’azione è riuscita. Se ottieni un doppio 1 l’azione è fallita in automatico. Bello liscio, D&D dalla 3.x c’ha fatto la sua fortuna, qualche hanno dopo.
Il combattimento funziona allo stesso modo, con però la possibilità di poter schivare o usare in maniera attiva lo scudo per parare i colpi grazie all’abilità Usare scudo.
La magia usa gli stessi meccanismi, con ogni incantesimo paragonato a una abilità, con pertanto un suo valore di Bravura, e la spesa di punti Magia, recuperabili con una notte di sonno. Il fatto è che alcuni incantesimi, tipo “Ridà vita” possono essere utilizzati anche da personaggi appena creati, squilibrando non poco il gioco.
Completano il volume, le regole sull’equipaggiamento, su pericoli come cadute, fuoco, veleni, una avventura introduttiva e alcuni spunti per il master. Molto apprezzati sono i materiali aggiuntivi come le schede delle creature, sotto forma di mazzo di carte, lo schermo, i cartoncini da ritagliare per farne delle miniature da usare durante il gioco, le mappe a colori della prima avventura e le schede dei giocatori.
In definitiva? Un bel gioco se siete neofiti assoluti, mentre se siete già un po’ scafati potrebbe risultarvi un po’ limitato (ma espandibile con un po’ di home rules).
Tornando a noi, alla fine non ci giocammo. Il mio amico lo parcheggiò da me con la formula “tienilo tu, poi passerò a riprenderlo quando ci giocheremo.”
Io sto ancora aspettando…

domenica 23 luglio 2017

CAPITAN INDIANA E I PREDATORI DELLO SCUDO MALEDETTO


CAPITAN INDIANA E I PREDATORI DELLO SCUDO MALEDETTO
 

Che c’azzeccano Capitan America e Indiana Jones?
Semplice: a parte la collocazione temporale, la mia avventura preferita del Capitano potrebbe essere riciclata senza problemi per un film del dottor Henry Jones junior detto Indiana.
Si intitola Caccia alla pietra di sangue, fu pubblicata in un volume a parte in Italia e raccoglie i numeri dal 357 al 364 della serie regolare di Cap pubblicata negli USA nel 1989.
Prima due doverose parole sull’autore: Mark Gruenwald. È stato executive editor della Marvel per anni e scrisse le avventure del Capitano per ben 10 anni(137 numeri secondo la Marvel Universe wiki). Aveva una conoscenza minuziosa del Marvel Universe, tanto che fu l’autore dell’Official Marvel Handbook, ma l’opera per cui è maggiormente ricordato è Squadrone supremo. In questa miniserie di 12 numeri, un gruppo di supereroi ispirato alla Justice League della Distinta Concorrenza decideva di risolvere i problemi del mondo istaurando una specie di benevola dittatura mondiale. Uscì pochi mesi prima di un altro capolavoro, Watchmen, e gettò le basi, secondo me, insieme a esso della famosa “decostruzione del supereroe” degli anni ottanta e novanta.
Morì a 43 anni per un attacco cardiaco. Seguendo le sue volontà fu cremato e le sue ceneri mescolate all’inchiostro usato per la ristampa in volume dello Squadrone supremo.
Questa premessa era dovuta in memoria di un professionista che amava il suo lavoro e perché, appunto diede vita a questa storia.
Tornando a noi, tutto inizia quando tre loschi individui (Batroc il saltatore, e i suoi complici Zaran e Machete), rubano una cassa per il Barone Zemo, ancora convalescente dopo gli eventi di Atti di vendetta.
Nella cassa c’è lo scheletro di un personaggio minore della Marvel: Ulysses Bloodstone il cacciatore di mostri. Il Barone se ne vuole servire(in realtà gli basta lo sterno da usare come bacchetta da rabdomante), per rintracciare, insieme a un sensitivo, i frammenti della antichissima Pietra di sangue che dava i poteri e il nome a Bloodstone.
Vengono scoperto da Diamante, una ex supercriminale in cerca di redenzione e innamorata del Capitano, che però viene scoperta e chiusa nella cassa insieme allo scheletro per poi essere gettata in un pozzo dove verrà trovata da Cap, grazie a un segnalatore d’emergenza. Insieme al figlio di J.J.Jamson che fa loro da pilota inizieranno una corsa contro il tempo in giro per il mondo dalla foresta amazzonica al triangolo delle bermuda, dall’Egitto a Tokio, per mettere mano ai frammenti della pietra e impedire a Zemo di usarla per resuscitare una persona a lui molto cara…

 
In tutta la storia lo spirito di Indy è molto presente, a iniziare dalle innumerevoli trappole, alcune, credo, abbastanza ispirate ai film. Poi l’azione frenetica e senza pause, luoghi esotici, i colpi di scena e nemici implacabili (alcuni pure tedeschi), una bella che sa farsi valere (ma in perenne friendly zone).
 

E non ultima, il primo scontro con un avversario che diverrà molto importante nel futuro: quel Crossbones che è stato riportato (male, secondo me) in Capitan America Civil war (Prima o poi farò anche un post su cosa penso del Marvel Cinematic Universe).
 

In definitiva qui abbiamo un Capitano molto action, che strizza l’occhio non solo al Dottor Jones ma anche a tutto quel genere di film d’azione che andava di modo negli anni ottanta, costruita bene e senza buchi di sceneggiatura. Chi cerca drammi esistenziali e tormenti interiori qui non ne troverà, è intrattenimento allo stato puro, ma del tipo di qualità, di quello che a quasi vent’anni di distanza si legge ancora con piacere perché ha mantenuto una certa freschezza.

Fidatevi, un capolavoro, anche se non vi piace il Capitano.

E comunque, se si fossero ispirati a questa storia per Indiana Jones 4, chissà…

mercoledì 19 luglio 2017

JOHN CARTER, IMMIGRATO ILLEGALE DI MARTE




JOHN CARTER, IMMIGRATO ILLEGALE DI MARTE
 
John Carter di Marte di E. R. Burroughs è una saga attualissima.
«Matté, ma che c@##o dici?» risponderanno chi la conosce. «Parla di un americano della fine dell’800 arrivato su Marte quasi per magia e vive avventure folli in un mondo decadente.»
Appunto, rispondo io. Analizziamo i fatti.
Prima cosa. Questo volume, trovato anni su una bancarella di libri usati, contiene le prime tre avventure della saga: La principessa di Marte, Gli dei di Marte, I signori della guerra di Marte. Data la loro natura episodica non lasciano niente in sospeso a livello di trama.
L’autore è Edgar Rice Burroughs, un tizio che inventò un altro personaggio che forse avrete sentito nominare qualche volta: Tarzan.
Tornando a noi la storia parla di questo tizio, John Carter, appunto, ex ufficiale dell’esercito sudista che, mentre cerca l’oro in Arizona incappa in una misteriosa grotta da dove viene poi trasportato, in un modo mai del tutto spiegato, su Marte. Qui trova in una civiltà che cerca di sopravvivere tra le rovine delle antiche città di un mondo morente, povero d’acqua e con l’aria letteralmente fabbricata in uno stabilimento.
Incontra dapprima i giganteschi e selvaggi uomini verdi con quattro braccia, poi gli uomini rossi di Marte (del tutto simili ai terrestri solo che hanno, appunto, la pelle rossa e sono, giuro, ovipari!), popoli che si scannano tra loro.
Dapprima schiavizzato riuscirà a liberarsi e a fare carriera diventando uno dei migliori guerrieri di tutta Barsoom (come i locali chiamano Marte) grazie anche al fatto che, a causa della bassa gravità marziana egli è più forte e può saltare più lontano dei marziani stessi(che c#lo, eh?), e a sposare addirittura una principessa marziana con cui avrà un tenero ovetto(!).
Successivamente scoprirà altre razze marziane: quelli bianchi, quelli neri che scendono dalle lune su navi volanti come predoni e pirati, scoprirà i misteri dietro la religione marziana, combatterà un culto sanguinario, portando il faro della civiltà nordamericana positivista, razionale e protestante anche su quel pianeta(questo passaggio è, se non si fosse capito, sarcastico N.D.B).
Burroughs si dimostra un narratore di razza, capace di una trama d’azione priva di tempi morti e ricca di trovate e invenzioni narrative che rendono il suo Marte un mondo incredibile, affasciante e, a tratti inquietante (parlo del paradiso marziano alla fine del fiume Iss, e degli uomini pianta. Ma che c@##o si era fumato l’autore?).
Certo, ricordiamoci che è comunque un uomo della sua epoca, con tutti i suoi limiti e pregiudizi, ma se si riesce a sorvolare sulla prosa poco aulica e ricercata e sugli stereotipi culturali e razziali di cui sono infarcite le sue opere (Basta vedere il ciclo di Tarzan, al giorno d’oggi le associazioni  contro il razzismo sarebbero sul piede di guerra), si potrà trovare un autore capace di dare parecchi punti a molti autori moderni, almeno sotto il punto di vista dell’originalità.
Quindi ricapitolando: John Carter sbarca su Marte (o Barsoom), all’improvviso, senza passare per i canali ordinari, senza che nessuno gli chieda documenti o lasciapassare. Viene fatto schiavo, poi liberato. Alla fine si ritroverà a essere in una posizione di prestigio, togliendo lavoro a tanti giovani marziani disoccupati e si sposerà con una di loro, addirittura una principessa (i più maligni dicono che l’abbia fatto per il permesso di soggiorno). E intanto con le sue azioni farà crollare certezze filosofiche e religiose vecchie di millenni, mettendo in crisi equilibri sociali.
A questo punto mi stupisco che questi libri non siano già stati impugnati da Salvini come monito contro l’invasione clandestina. :-D
Allora, alla fine di questo delirio ditemi: è o non è una storia attuale?

lunedì 17 luglio 2017

DI SOTTERRANEI E DRAGHI


DI SOTTERRANEI E DRAGHI
 

Credo fosse il 1994 quando mi fu messa sotto il naso una copia di seconda mano di un gioco chiuso in una scatola rossa.
Il gioco si chiamava Dungeons and Dragons. Non so se ne avete mai sentito parlare.
Io in realtà nel corso degli anni un po’ sì, ma era la prima volta che mi trovavo tra le mani il regolamento.
All’epoca pensavo che fosse “la prima edizione”. Per certi versi era così, nel senso che era la prima edizione stampata in italiano mentre, in realtà, era  la versione rivista del Basic Set fatta da Frank Mentzer passata alla storia il famoso acronimo BECMI o anche “Scatola rossa” in Italia.
Per i più curiosi: l’acronimo stava per: Basic, Expert, Companion, Master, Immortal. Indicavano scatole di colore diverso che espandevano il regolamento con nuove opzioni per il giocatore, nuove regole, come quelle per i tornei, per le battaglie campali, costruire e mantenere una fortezza, nuove armi e incantesimi via via fino ad avere personaggi ormai immortali. A ogni scatola era assegnato un colore: Rosso per il Basic, blu per l’Expert, azzurro per il Companion, nero per il Master e oro per l’Immortal.
Comunque: per me fu la scoperta di un nuovo mondo: un gioco dove non era obbligatorio avere delle pedine o un tabellone? Dove poterti creare i tuoi personaggi e le loro storie e avventure?
Ma siamo matti?
Ora, per chi non lo sapesse in un gioco di ruolo c’è bisogno di un “Master”, ossia, un giocatore che faccia da arbitro. Costui è quello che conosce le regole, conosce l’avventura e interpreta tutti i personaggi al di fuori del gruppo dei giocatori, alleati o avversari che siano (i famosi PNG ossia Personaggi Non dei Giocatori).
Mi proposi come master (da Dungen Master, Signore dei sotterranei), e mi misi a studiare il regolamento, con un impegno decisamente superiore a quello per la scuola (ops, l’ho detto?).
Termini come Classe, Livello, Round, Tiro per colpire, Punti Esperienza divennero familiari. Dimostrando anche un certo spirito d’iniziati decisi di snobbare l’avventura proposta nel modulo e di scriverne una io: l’esplorazione di un antico tempio abbandonato scoperto casualmente dai PG (Personaggi dei Giocatori), e pieno di tesori, trappole e oscure presenze… J

C’era un unico lievissimo intoppo. Mi. Mancavano. I. Dadi.

Digressione per i non giocatori: in Dungeons and Dragons si usano, oltre a quelli cubici che conosciamo tutti, anche una serie di dadi diversi da quelli conosciuti. Possono avere anche quattro, otto, o venti facce. Come quelli qua sotto:

 
Sono in realtà quelli che in geometria vengono chiamati “Solidi platonici” (cercate pure su Google).
Per giocare a D&D occorreva un set di questi dadi: un dado a 4 facce, uno a 6 (quello conosciuto), a 8 facce, a 10 facce, a 12 facce e a 20.
NOTA: il dado a 10 facce, in realtà non sarebbe un solido platonico vero e proprio ma un Trapezoedro pentagonale (anche qui usate Google, non mi invento niente), comodo per fare tiri che comprendono le percentuali.
Ma tornando a noi, mancavano i dadi. La scatola era di seconda mano, e pertanto i dadi erano finiti chissà dove, e non sapevo dove andare a trovarne altri. Era un bel problema.
Poi, all’improvviso, ebbi un’illuminazione. Questa:
 
Sì, sono proprio delle trottole. Creai con cartoncino, colla e stuzzicadenti, sei trottole, ognuna con il necessario numero di facce.
E funzionavano davvero.
La prima partita me la ricordo ancora. La creazione delle schede dei personaggi:

 


































I personaggi dei miei amici che avanzavano nell’ignoto, e il loro primo, letale avversario: un topo gigante. I giocatori impegnarono mezz’ora, in 4, ad affrontarlo, ma lui imperterrito si ostinava a sopravvivere finché io, sconsolato, decisi che riuscisse a scappare, prima di rischiare passare l’intera serata contro quell’unica creatura (che aveva iniziato a farmi un po’ pena.)
Ma, a parte questo piccolo incidente fu una partita epocale, tra mostri tagliati a metà con un solo colpo di spada e orde di non morti annientate.
È vero che l’avventura fini con un TPK(Total Kill Party, ossia sconfitta totale del gruppo), ma questo non mi scoraggiò. Il dado, ormai, era tratto (gioco di parole involontario, scusate).
Come dite? Nelle foto non compare la scatola rossa, ma soltanto le schede introduttive?
Avete ragione ma, purtroppo, ho trovato solo quelle. E le fotocopie del manuale base. La scatola col manuale è persa chissà dove, spero di ritrovarla, prima o poi.
Questa soffitta mi ricorda sempre di più il Tardis, più grande dentro di quanto appaia fuori. È un po’ inquietante…

sabato 15 luglio 2017

QUANDO GLI AVENGERS SI CHIAMAVANO VENDICATORI


QUANDO GLI AVENGERS SI CHIAMAVANO VENDICATORI

Era il 1992 ed ero alla stazione per prendere il treno per La Spezia in “gita” verso la visita per la leva militare(chi ha una certa età sa di che cosa parlo, nevvero? ;-) ). Mentre studiavo l’edicola della stazione con l’intenzione di prendere qualcosa per il viaggio, la mia attenzione cadde su di una copertina in particolare: Thor che avanzava minaccioso verso chi guardava con, disposti a ventaglio dietro di lui, il resto dei suoi compagni.
Sopra di loro campeggiava la scritta:

SPECIALE I VENDICATORI
RITI DI CONQUISTA

 
 
 


Bum! Era fatta. Bastò quello per un amore a prima vista.
Presi quell’albo(scoprii che era la raccolta di più numeri che formavano una saga completa) e, durante il lungo tragitto dalle Marche fino alla Liguria, lo divorai più e più volte, fino a impararlo a memoria.
Ora, non ero totalmente a digiuno della materia. Tempo prima il mio amico Marco mi aveva prestato alcuni dei suoi albi, Uomo Ragno e X-men in particolare, mentre i TV avevo visto più volte i cartoni dell’Arrampicamuri e dei Fantastic Four, ma gli Aveng… pardon, I Vendicatori mi conquistarono.
Perché? Bè intanto iniziamo dalla storia: in quella saga i Signori del male, ossia la collezione dei peggiori nemici dei Vendicatori, sotto la guida del barone Zemo riescono, con abili stratagemmi, a “sfrattare” gli eroi dalla loro base e a isolarla.
A rimetterci per primi saranno Ercole, ridotto in di vita e il povero Jarvis, maggiordomo del gruppo.
Una delle sequenze più drammatiche sarà infatti il pestaggio del pover’uomo da parte di Mister Hide su ordine di Zemo per piegare lo spirito di Capitan America, costretto ad assistere al massacro del maggiordomo e ad ascoltare le sue urla.
 


Un’altra immagine molto forte fu, alla fine di tutto, dopo che gli eroi avevano vinto, vedere il capitano inginocchiato in mezzo alle macerie tenendo in mano i pezzi dell’unica foto di sua madre, tra i ricordi di una vita che i supercriminali avevano distrutto nel tentativo di spezzarlo.


 
 
Bisogna dire che il merito di quell’amore era anche degli autori di quella saga:  a disegnarla c’era John Buscema, chiamato “il Michelangelo dei fumetti” mica l’ultimo arrivato. Un tizio che lavorò per anni oltre che sui Vendicatori, anche su Thor e Silver Surfer e che disegnò ben 200 numeri di Conan il barbaro.
Insieme a lui Tom Palmer più famoso come inchiostratore, ma bravo anche nei disegni, tanto da affiancare mister Buscema.
E alla sceneggiatura Roger Stern, un altro pezzo da novanta che lavorò sia per la Marvel che per la DC e che, se non ricordo male inventò il personaggio di Hobgoblin.
Ora, a distanza di anni, riflettendoci bene forse era la formula ciò che mi piacque di quel fumetto: un gruppo di persone che più diverse non c’erano, differenti per poteri e storia, senza niente a legarli tra loro (a differenza di X-men e Fantastici 4), ma che nonostante tutto si metteva insieme per uno scopo comune, come una specie di famiglia MOLTO allargata, dove spesso si litigava, ma dove si metteva subito tutti i propri problemi da parte se c’era da combattere per il bene comune (sì, più o meno accade anche nella Justice League, ma non stiamo parlando di loro, oggi).
Figo, no? Bè per me lo era e lo rimane tutt’oggi.
Successivamente iniziai a collezionare tutti gli albi che trovai, compreso qualche arretrato. Allora nell’edizione italiana venivano pubblicati insieme alle avventure di Capitan America, alternando le storie, cercando di mantenere una certa continuity.
Comunque, essere fan dei Vendicatori allora, per come l’ho vissuta io era qualcosa di eroico.
Per almeno due motivi:
1) allora i diritti dei fumetti Marvel erano spezzettati  tra varie case editrici (Star Comics, Plat Press Comics Art). Seguire in maniera organica i crossover era impossibile e, spesso, visti i ritardi (anche di 10 o 12 anni!) dalla pubblicazione dell’originale americano (l’ho detto che Riti di Conquista è dell’ 86?)si poteva assistere a incongruenze e anche spoiler.
2) Allora sembrava che alla Marvel esistessero soltanto L’Uomo ragno e gli X-men. Ognuno di loro aveva titoli su titoli che aumentavano l’offerta.
C’erano Web of Spiderman, Amazing, Spectacular, ecc. ecc.
Per i mutanti c’erano tutte le possibili declinazioni della x, compreso (giuro!) X-Factor (ma senza Morgan.)
C’erano battute sul fatto che le giornate di Peter Parker durassero più di 24 ore, mentre gli Uomini X, per essere una minoranza perseguitata, erano fin troppo numerosi.
Al massimo, dall’altra parte c’erano i Vendicatori della costa ovest come gruppo aggiuntivo (probabile futuro post), ma niente che reggesse il passo.
Oggigiorno, lo sappiamo, le cose hanno preso una piega diversa. Col successo dei film anche la visibilità e il “peso” nei fumetti è aumentato, tanto che, oramai, qualunque gruppo di supereroi che si mette insieme si fa chiamare Avengers (bè, quasi tutti.)
È una ruota che gira. Domani, magari avremo un intero esercito di, che so, Guardiani della galassia o Difensori.
Comunque sia questa storia mi è rimasta nel cuore. Azione, dramma, nemici spietati e implacabili che approfittano dei tuoi punti deboli e una situazione senza speranza.
Che si cerca di più per un battesimo del fuoco (fumettistico)?
A questo punto, però, mi piacerebbe sapere quale è stato il vostro primo amore (a fumetti).
Quando è successo? Dove eravate? Perché ve ne innamoraste?

venerdì 14 luglio 2017

C'ERA UNA VOLTA UNA SOFFITTA


C’ERA UNA VOLTA UNA SOFFITTA

Perché aprire un blog a causa di una soffitta? Bè, è una storia non troppo lunga.
Prima le presentazioni: mi chiamo Matteo, sono marchigiano, scrittore per hobby e nerd da parecchio tempo.
Qualche tempo fa, mentre riordinavo la soffitta, ho ritrovato un bel po’ di scatoloni di tutto ciò che ho collezionato nel corso degli anni: fumetti, libri, videocassette, gadget e altro. È stato un interessante tuffo nel passato, e ha scatenato un bel po’ di riflessioni: io ho circa quarant’anni e sono cresciuto in anni in cui la parola “nerd”, in Italia, non era conosciuta.
Onestamente non ricordo come noi venissimo chiamati allora, ma di sicuro anche negli anni ’80 e ’90 c’eravamo.
Solo che non eravamo ancora stati sdoganati, non c’era Big Bang Theory, i miliardari della Sylicon Valley in maglietta e scarpe sportive erano ancora da venire(nel senso che non erano ancora nati, nella maggior parte di casi).
Era una cultura MOLTO di nicchia, eravamo molto simili a dei carbonari (avete studiato tutti storia, vero?), insomma era tutto un altro mondo.
Insomma, dove voglio andare a parare?
Ho aperto questo blog per chi allora c’era, come me, per scambiarsi ricordi e riflessioni e per chi non era ancora nato, nel caso che gli venga la curiosità di vedere “com’era una volta”.
Pensate a una macchina del tempo, ma senza quelle noiose complicazioni dei paradossi temporali.
E non è poco.
Premetto che non sono molto pratico del mezzo e quindi chiedo scusa per ogni svarione che, di sicuro, andrò a fare in futuro. Siate comprensivi, per favore.
Tutto a posto? Allora andiamo a iniziare.
Buon viaggio!